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venerdì 15 marzo 2013

Racconti: Tziu Antonicu


TZIU ANTONICU

In un tiepido pomeriggio di primavera, me ne andavo tranquillamente a spasso per la campagna. Oltrepassai il ruscello Carradori e risalii la stradina su per il pendio. Avevo intenzione di raggiungere le case su in cima, e godermi il magnifico paesaggio che da lassù si poteva ammirare. Una valle abitata, immersa nel verde, attraversata da corsi d’acqua. In ogni angolo trovavo una sorgente a cui si poteva dissetare qualsiasi viandante. Mentre raggiungevo la mia meta, Cuccuru e’Nuxedda, con grande sorpresa vidi in lontananza due donne, raggiungendole mi accorsi di riconoscerle.
Peppina e Mundicca, quasi novantenni entrambe, erano coinvolte in una accalorata discussione. Le osservai con tenerezza. Vedova l’una, signorina l’altra, portavano entrambe i segni di una intensa vita passata. La pelle del loro viso segnata da profonde rughe, mal si accostava al loro carattere sempre battagliero. Nere da tempo, come voleva la tradizione, ogni volta che si incontravano, raccontavano le loro storie, che talvolta non coincidevano. Ma quel pomeriggio, nonostante tutto, si trovarono d’accordo quando iniziarono il racconto sul loro vicino di casa, il possidente Antonicu.

Egli era una gran brava persona, così si diceva, sempre disponibile e caritatevole in ogni occasione. Aveva la fama di lasciare sempre, e se lui non c’era, così raccomandava ai suoi servi, un recipiente di latte da offrire a chi capitava presso il suo ovile e, mentre questi mangiavano egli si allontanava in modo da non metterli a disagio e quindi potessero mangiare in assoluta tranquillità.

Fu un’annata abbastanza buona, e l’appetito ai poveri non mancava mai. Mentre le pecore brucavano tranquillamente l’erba, il loro custode Bobori, servo pastore, passava da un masso all’altro, ove si sedeva, godendosi il primo sole, ancora più gradito perché gli permetteva di asciugarsi i pantaloni di velluto bagnati dalla rugiada. E intanto schiacciava qualche breve sonnellino. L’ovile era situato in una valle, a breve distanza dal paese, da dove arrivava il suono delle campane e lo scoppio di qualche petardo che annunciava l’inizio della festa. I carri sapientemente addobbati erano pronti per la partenza. Era la festa di Santa Maria, festa di primavera e soprattutto la prima del nuovo anno. Dai paesi  vicini arrivavano frotte di pellegrini attirati dalla prospettiva di un lauto pranzo e dal divertimento, oltre alla fede vera e propria. Molti portavano qualche dono per l’amico che li avrebbe ospitati, per ricambiare il solito “corriolu” che il padrone di casa offriva al momento della loro partenza. Tziu Antonicu invitò all’ovile un gruppo di ospiti, e, in attesa del latte che sarebbe stato munto a breve, li  fece sedere cercando di accoglierli nel miglior modo possibile. Gli ospiti aumentavano e il servo mungeva e brontolava contemporaneamente pensando che il giorno non sarebbe stato possibile fare il formaggio perché quei festaioli fannulloni erano ingordi e andavano alla festa solo per approfittare della benevolenza del padrone. Ma tziu Antonicu sembrava molto felice di accogliere tanti ospiti, sorrideva bonariamente a tutti e esortava il suo servo a mungere il più in fretta possibile le pecore, le quali sembravano più che contente di offrire ai viandanti il loro latte. Il gruppo era composto da persone molto diverse:

il suonatore di launeddas, “s’allauneri” (stagnino-lattoniere), il venditore di “billettus de sa furtuna” che venivano estratti da un pappagallo all’interno di un cappello, il fotografo, il desulese che vendeva campanacci, taglieri, bisacce di lana caprina, nonché la genziana. C’erano anche dei mendicanti più o meno storpi, più o meno credibili.

TZiu Antonicu, dopo aver invitato tutti a sedersi, si mise anch’egli a mungere e in breve tempo riempirono due grossi recipienti di latte, li portò subito fuori dal recinto, chiedendo ai suoi ospiti se preferissero fare la zuppa, in quel caso avrebbero dovuto fare due turni, perché lui possedeva solo pochi cucchiai. Se avessero invece optato per la quagliata, si poteva utilizzare la crosta di pane come cucchiaio. Ci furono gli uni e gli altri e il gruppo si divise. Appena la quagliata fu pronta, divise la colazione in due recipienti, divise cucchiai e croste di pane, e mentre si allontanava per evitare che qualcuno restasse in imbarazzo, augurò buon appetito a tutti.

L’appetito era molto grande, alcuni mangiarono compostamente mentre altri quasi si tuffavano dentro il recipiente.

Fra rumori vari, sbrodolando e risucchiando avidamente, il primo recipiente fu finito e tziu Antonicu li invitò a passare al recipiente della quagliata  e l’attacco riprese con vigore più che mai. I pastori mentre mangiavano il loro casascedu, osservavano la scena  con disprezzo, ma tziu Antonicu  preso il suo cucchiaio di corno, dando inizio alla sua colazione a base di zuppa , col suo sguardo indulgente, quasi implorava i suoi servi ad avere pazienza verso i loro ospiti.

Ora il gruppo rallentava l’attacco, le pance erano piene, le ispide barbe un po’ imbiancate, cominciarono ad alzarsi soddisfatti scambiandosi sorrisi di compiacimento. Ringraziato “su meri” si avviarono verso il paese di Sadali, pensando che la festa iniziasse veramente bene e che tziu Antonicu era veramente un gran sant’uomo.

Il padrone, riordinate un po’ le cose, chiamò il servo più anziano e gli chiese di preparare il cavallo affinché  potesse arrivare per la messa. Liberò i suoi servitori da ogni impegno, esortandoli a divertirsi un po’. Ma il servo rispose che sarebbero andati più tardi, dopo aver fatto il formaggio. Tziu Antonicu  consigliò di conservare il poco latte rimasto per farne il casascedu da offrire il giorno seguente ai pellegrini di ritorno, ma saputo che il latte era ancora tanto, quasi lo stesso degli altri giorni e che quindi si sarebbe fatto lo stesso formaggio, egli commosso si inginocchiò e si segnò più volte con la croce.

Peppina e Mundicca  terminarono il loro racconto, commosse  al ricordo del loro vicino di casa.  Tziu Antonicu  nella vita aveva dato tanto, una generosità nata da una  semplice vita e dalla consapevolezza che sia sempre meglio dare che ricevere. Mundicca estrasse la lunga chiave di casa che aveva appesa al suo grembiule, aiutò Peppina a raddrizzare i suoi bastoni, e all’imbrunire si salutarono, contente anche quel giorno, di aver ridato vita ad una semplice persona.


 

 

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