TZIU
ANTONICU
In
un tiepido pomeriggio di primavera, me ne andavo tranquillamente a spasso per
la campagna. Oltrepassai il ruscello Carradori e risalii la stradina su per il
pendio. Avevo intenzione di raggiungere le case su in cima, e godermi il
magnifico paesaggio che da lassù si poteva ammirare. Una valle abitata, immersa
nel verde, attraversata da corsi d’acqua. In ogni angolo trovavo una sorgente a
cui si poteva dissetare qualsiasi viandante. Mentre raggiungevo la mia meta,
Cuccuru e’Nuxedda, con grande sorpresa vidi in lontananza due donne,
raggiungendole mi accorsi di riconoscerle.
Peppina
e Mundicca, quasi novantenni entrambe, erano coinvolte in una accalorata
discussione. Le osservai con tenerezza. Vedova l’una, signorina l’altra,
portavano entrambe i segni di una intensa vita passata. La pelle del loro viso
segnata da profonde rughe, mal si accostava al loro carattere sempre
battagliero. Nere da tempo, come voleva la tradizione, ogni volta che si
incontravano, raccontavano le loro storie, che talvolta non coincidevano. Ma
quel pomeriggio, nonostante tutto, si trovarono d’accordo quando iniziarono il
racconto sul loro vicino di casa, il possidente Antonicu.
Egli
era una gran brava persona, così si diceva, sempre disponibile e caritatevole
in ogni occasione. Aveva la fama di lasciare sempre, e se lui non c’era, così
raccomandava ai suoi servi, un recipiente di latte da offrire a chi capitava
presso il suo ovile e, mentre questi mangiavano egli si allontanava in modo da
non metterli a disagio e quindi potessero mangiare in assoluta tranquillità.
Fu un’annata abbastanza buona, e l’appetito ai poveri non
mancava mai. Mentre le pecore brucavano tranquillamente l’erba, il loro custode
Bobori, servo pastore, passava da un masso all’altro, ove si sedeva, godendosi
il primo sole, ancora più gradito perché gli permetteva di asciugarsi i
pantaloni di velluto bagnati dalla rugiada. E intanto schiacciava qualche breve
sonnellino. L’ovile era situato in una valle, a breve distanza dal paese, da
dove arrivava il suono delle campane e lo scoppio di qualche petardo che
annunciava l’inizio della festa. I carri sapientemente addobbati erano pronti
per la partenza. Era la festa di Santa Maria, festa di primavera e soprattutto
la prima del nuovo anno. Dai paesi
vicini arrivavano frotte di pellegrini attirati dalla prospettiva di un
lauto pranzo e dal divertimento, oltre alla fede vera e propria. Molti
portavano qualche dono per l’amico che li avrebbe ospitati, per ricambiare il
solito “corriolu” che il padrone di casa offriva al momento della loro
partenza. Tziu Antonicu invitò all’ovile un gruppo di ospiti, e, in attesa del
latte che sarebbe stato munto a breve, li
fece sedere cercando di accoglierli nel miglior modo possibile. Gli
ospiti aumentavano e il servo mungeva e brontolava contemporaneamente pensando
che il giorno non sarebbe stato possibile fare il formaggio perché quei
festaioli fannulloni erano ingordi e andavano alla festa solo per approfittare
della benevolenza del padrone. Ma tziu Antonicu sembrava molto felice di
accogliere tanti ospiti, sorrideva bonariamente a tutti e esortava il suo servo
a mungere il più in fretta possibile le pecore, le quali sembravano più che
contente di offrire ai viandanti il loro latte. Il gruppo era composto da
persone molto diverse:
il suonatore di launeddas, “s’allauneri”
(stagnino-lattoniere), il venditore di “billettus de sa furtuna” che venivano
estratti da un pappagallo all’interno di un cappello, il fotografo, il desulese
che vendeva campanacci, taglieri, bisacce di lana caprina, nonché la genziana.
C’erano anche dei mendicanti più o meno storpi, più o meno credibili.
TZiu
Antonicu, dopo aver invitato tutti a sedersi, si mise anch’egli a mungere e in
breve tempo riempirono due grossi recipienti di latte, li portò subito fuori
dal recinto, chiedendo ai suoi ospiti se preferissero fare la zuppa, in quel
caso avrebbero dovuto fare due turni, perché lui possedeva solo pochi cucchiai.
Se avessero invece optato per la quagliata, si poteva utilizzare la crosta di
pane come cucchiaio. Ci furono gli uni e gli altri e il gruppo si divise.
Appena la quagliata fu pronta, divise la colazione in due recipienti, divise
cucchiai e croste di pane, e mentre si allontanava per evitare che qualcuno
restasse in imbarazzo, augurò buon appetito a tutti.
L’appetito
era molto grande, alcuni mangiarono compostamente mentre altri quasi si
tuffavano dentro il recipiente.
Fra
rumori vari, sbrodolando e risucchiando avidamente, il primo recipiente fu
finito e tziu Antonicu li invitò a passare al recipiente della quagliata e l’attacco riprese con vigore più che mai. I
pastori mentre mangiavano il loro casascedu, osservavano la scena con disprezzo, ma tziu Antonicu preso il suo cucchiaio di corno, dando inizio
alla sua colazione a base di zuppa , col suo sguardo indulgente, quasi
implorava i suoi servi ad avere pazienza verso i loro ospiti.
Ora
il gruppo rallentava l’attacco, le pance erano piene, le ispide barbe un po’
imbiancate, cominciarono ad alzarsi soddisfatti scambiandosi sorrisi di
compiacimento. Ringraziato “su meri” si avviarono verso il paese di Sadali,
pensando che la festa iniziasse veramente bene e che tziu Antonicu era
veramente un gran sant’uomo.
Il
padrone, riordinate un po’ le cose, chiamò il servo più anziano e gli chiese di
preparare il cavallo affinché potesse
arrivare per la messa. Liberò i suoi servitori da ogni impegno, esortandoli a
divertirsi un po’. Ma il servo rispose che sarebbero andati più tardi, dopo
aver fatto il formaggio. Tziu Antonicu
consigliò di conservare il poco latte rimasto per farne il casascedu da
offrire il giorno seguente ai pellegrini di ritorno, ma saputo che il latte era
ancora tanto, quasi lo stesso degli altri giorni e che quindi si sarebbe fatto
lo stesso formaggio, egli commosso si inginocchiò e si segnò più volte con la
croce.
Peppina
e Mundicca terminarono il loro racconto,
commosse al ricordo del loro vicino di
casa. Tziu Antonicu nella vita aveva dato tanto, una generosità
nata da una semplice vita e dalla
consapevolezza che sia sempre meglio dare che ricevere. Mundicca estrasse la
lunga chiave di casa che aveva appesa al suo grembiule, aiutò Peppina a
raddrizzare i suoi bastoni, e all’imbrunire si salutarono, contente anche quel
giorno, di aver ridato vita ad una semplice persona.
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